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La lezione di Cambridge Analytica: leggere prima di accettare, per sopravvivere nell'universo digitale

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La lezione di Cambridge Analytica: leggere prima di accettare, per sopravvivere nell'universo digitale
Secondo il giudice, Facebook ha fornito le necessarie informazioni ai propri utenti e non è responsabile del fatto che non abbiano fatto quanto potevano per evitare di ritrovarsi monitorati, profilati e tracciati per finalità politiche da uno squalo digitale
Intervento di Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali
(HuffPost, 6 giugno 2023)

Ci sono due modi di leggere la sentenza con la quale, nei giorni scorsi, il giudice Maurice A. Ross della Corte Superiore del distretto di Columbia ha messo nero su bianco la propria decisione: non è stata colpa di Facebook – ora Meta – se i dati personali di decine di milioni di utenti sono finiti nei server nell’ormai famigerata Cambridge Analytica per essere utilizzati a scopo di profilazione politica.

Il primo è considerarla una sentenza di un Paese lontano, un affare per legulei e azzeccagarbugli relativo a una vicenda ormai vecchia di un lustro e che non ci ha coinvolto direttamente e, quindi, lasciarcela scivolare addosso. La seconda è leggerci tra le righe una lezione che va imparata in fretta anche solo per sperare di sopravvivere nell’universo digitale nel quale viviamo immersi e nei metaversi – qualunque cosa siano e saranno – che ci attendono.

Secondo l’accusa Facebook non aveva fatto abbastanza per impedire che i dati dei propri utenti finissero nelle mani di Cambridge Analytica e, in particolare, non li aveva adeguatamente informati della circostanza che terzi fornitori di una miriade di servizi avrebbero potuto raccogliere questi dati e cederli a ulteriori soggetti esattamente come accaduto nel caso di Cambridge Analytica. Ma il giudice Ross ha letto e riletto i termini d’uso di Facebook, la sua informativa sulla privacy, le istruzioni con le quali spiega agli utenti come impostare il servizio per evitare che i propri dati siano condivisi con terzi e, alla fine, ha concluso che non ci si potesse aspettare dalla società di Mark Zuckerberg niente di più.

Facebook, insomma, secondo la Corte ha fatto la sua parte e fornito le necessarie informazioni ai propri utenti e, quindi, non può essere considerata responsabile del fatto che questi ultimi non abbiano fatto quanto avrebbero potuto per evitare di ritrovarsi monitorati, profilati e tracciati per finalità politiche da uno squalo digitale come Cambridge Analytica. Ed è in questo passaggio che la sentenza appena resa dai giudici americani va letta e riletta che si sia giuristi o non giuristi, capita e fatta nostra nella speranza che ci sia d’aiuto a vivere meglio nella dimensione digitale e ad avere più cura dei nostri dati personali e, quindi, per questa via, di noi stessi.

L’intera disciplina in materia di protezione dei dati personali, infatti, è costruita attorno a un principio tanto semplice e efficace in teoria quanto complicato e, ormai, inefficace nella pratica: le persone devono essere puntualmente informate di chi farà cosa con i loro dati personali, di quali sono i propri diritti e di come esercitarli.

La consapevolezza, insomma, è il presupposto di ogni chance di esercizio di un controllo effettivo sui propri dati personali.

Ora il punto è che nella dimensione digitale i gestori delle grandi piattaforme e i grandi fornitori di servizi i cui termini d’uso e informative sulla privacy ormai letteralmente plasmano le nostre esistenze ci dicono tutto quello che la legge impone loro di dirci - insieme, per la verità, a tanto di più che potrebbero anche non dirci - ma lo fanno scommettendo sul fatto che noi, preoccupati come siamo solo ed esclusivamente di iniziare a condividere contenuti di ogni genere, conversare, chattare, giocare o magari cercare la nostra anima gemella, non leggeremo assolutamente nulla. E non è una scommessa completamente onesta perché la verità nuda e cruda è che, molto spesso, i processi e le interfacce di registrazione a servizi e piattaforme sono scientificamente progettati, disegnati e sviluppati in modo da ottenere l’effetto voluto: il rispetto formale delle regole ma la certezza – o quasi – che tutti o, almeno, i più, pur potendo non leggeranno nulla e correranno a cliccare sul pulsante “accetta e continua”.

E, naturalmente, è una scommessa che vincono regolarmente perché la più parte di noi accetta tutto e non legge nulla anche perché, in fondo, è tutto gratis o, almeno, così l’assenza di un corrispettivo economico e la diffusa e anzi dilagante ignoranza sul valore dei dati personali, ci induce a pensare.

Ecco poi magari capita quello che la recentissima sentenza americana suggerisce: che uno dei più grandi scandali della storia della privacy nella dimensione digitale resti senza altri responsabili se non le vittime che avrebbero, forse, potuto evitare di diventarlo se si fossero preoccupate di più di leggere e capire le regole della piattaforma che avevano scelto di usare. E questa è la lezione che, a saper leggere tra le righe, la stessa sentenza dovrebbe suggerirci: siamo davanti a un evidente fallimento regolamentare perché gli obblighi di informazione, nella forma attuale, hanno fatto il loro tempo e tra metaversi, internet delle cose e algoritmi sarà sempre peggio e in attesa che si trovino regole migliori, l’unica chance di difendere la nostra privacy e, attraverso essa, la nostra sopravvivenza digitale, è accettare l’idea tanto semplice quanto nemica della nostra pigrizia, che prima si leggono e capiscono termini d’uso e informative sulla privacy e poi si accetta.

In fondo, nella dimensione fisica, se qualcuno ci mette davanti un contratto con il quale ci impegniamo a pagare in denaro, prima di firmare leggiamo tutto e, almeno, proviamo a capire. Non c’è ragione per non fare la stessa cosa online, quando aderiamo a un accordo impegnandoci a pagarne il prezzo, in un modo o nell’altro, cedendo porzioni della nostra identità personale e, quindi, nella sostanza, parti di noi stessi.